Il legno è vecchio, la botte è vuota, e tuttavia contiene ancora un po’ di vino. Quanto poco ci vorrebbe a buttarlo, a sbaraccare tutto? Non ci vorrebbe nulla. Nessuno avrebbe da ridire. Si farebbe spazio per chi ne ha bisogno – e tutti, intorno, hanno un disperato bisogno di spazio. Ma Sapo Matteucci decide di prendersi cura di quel vino rimasto, e vi si dedica con una forza e un coraggio e una pazienza e una perseveranza e una sincerità che non ha mai riservato a nient’altro in tutta la sua vita. Lo fa invecchiare. Lo imbottiglia. Lo porta in tavola e ce lo serve – e quel vino è questo romanzo, ed è portentoso. Sapo Matteucci non ne è solo l’autore: ne è anche il protagonista, e ci racconta senza infingimenti il tramonto di un uomo – il suo tramonto – come solo grandi scrittori ogni tanto riescono a fare, alla fine della loro carriera. Solo che della carriera di Sapo Matteucci questo romanzo è l’inizio, perché si tratta del suo esordio. Nella zona di guerra più banale e crudele della nostra avventura terrena, la famiglia, là dove ogni cosa è destinata a diventare conflitto, recupera la gioia originaria che tutti perdiamo di vista, quella dell’essere al mondo, e canta il legame esilarante e struggente con tutto ciò che al mondo lo trattiene.
Madri, padri, cani, figli, conigli, rotture di coglioni danzano in queste pagine con traboccante, dissipante vitalità, descritti da un occhio che ama senza alternative e da una lingua che batte con grazia le piste della grande letteratura.
Quella grande letteratura di cui Sapo Matteucci si è nutrito per cinquant’anni senza mai attentarsi di produrla, e che infine gli è scivolata fuori tutta insieme in questo libro, come quando c’è di mezzo il destino.
Sandro Veronesi